Ettore Lorito - GENZANO DI BASILICATA - CRONOGRAFIA

            

Parte II - Cap. I - Il governo municipale


Sotto i Romani Genzano venne annoverato tra i Municipi, cioè tra i paesi che avevano diritto alla Cittadinanza Romana.

I Municipi allora si Governavano con una propria amministrazione interna in conformità delle direttive del capo della Provincia. o giustizierato, chiamato: Governatore Consolare, o Correttore, o Preside mandato da Roma.

Genzano ebbe, come i paesi della stessa importanza, i Duumviri, Magistrati incaricati di fare eseguire gli ordini e le leggi generali emanate da Roma e dal Capo della Provincia; un Senato, formato dai migliori Cittadini; due alti Magistrati, eletti nei pubblici Comizi, che presiedevano il Senato, ne nominavano i membri (la decima parte dei Cittadini), che prendevano il nome di Coscritti o Decurioni; due censori, per il buon costume; due questori, per le pubbliche rendite; gli amministratori della giustizia.

Con l'andare del tempo i Magistrati mutarono di nome, di numero e mutarono anche le rispettive competenze e lo stesso Municipio si volle chiamare «Università» per indicare una più ampia autonomia, non tanto nei riguardi del Governo centrale, quanto nei confronti di quello del feudatario.

In verità il Municipio allora era un Istituto essenzialmente aristocratico, fondato sulla distinzione politica tra «l'Ordo» (proprietari) e «Plebs» (non proprietari).

Ma la religione di Gesù Cristo spianò la via all'uguaglianza civile e venne fuori «l'Università», come nuovo Ente civile fondato sopra un'unica classe sociale: la «Universitas Civium» a qualunque condizione i componenti appartenessero.

Parte II - Cap. II - Il governo universitario


Genzano ebbe un Governo Universitario di cui facevano parte:

1°) Il Sindaco e quattro aiutanti eletti, prima ogni anno poi ogni tre, dai cittadini che ne avevano la capacità, adunati in pubblico comizio, l'aiutante che nelle elezioni riportava il maggior numero di voti chiamavasi Primo Eletto e sostituiva il Sindaco;

2°) L'erario, con funzioni simili a quelle dell'attuale esattore comunale, che esigeva le rendite dell'Università e quelle del Feudatario, aveva il potere di far battere, imprigionare i debitori morosi, ritardatari o neghittosi, veniva eletto ogni anno, nel Pubblico comizio,  nella pratica avveniva che lo designava il Feudatario pel fatto che doveva esigere anche le sue rendite;

3°) Il Camerlengo, specie di sovraintendente alla custodia delle prigioni, capo della sorveglianza e sicurezza notturna del paese, che aveva alla sua dipendenza le guardie cittadine, sostituiva il governatore e metteva in esecuzione le ordinanze sindacali, veniva eletto ogni anno, nel Pubblico Comizio;

4°) Due ufficiali dell'Annona, detti Capitani, eletti come sopra, che fissavano il prezzo dei commestibili, zeccavano i pesi e le misure dei pubblici rivenditori (1);

5°) Un Portulano, che curava la nettezza pubblica e puniva i trasgressori: veniva scelto dalla R. Camera della Summaria in una terna proposta dal Pubblico Parlamento, ogni anno;

6°) Il Baglivo, che curava la polizia rurale e decideva le controversie civili dell'Università di lieve valore, aveva alla sua dipendenza i Baglivi che funzionavano da guardie rurali e da uscieri, veniva eletto annualmente, da tale magistrato ha origine l'attuale Giudice Conciliatore.

7°) II Giudice a Contratti, o R. Pronotariato, con funzioni simili a quelle degli attuali notai, di solito era nominato a vita dal Sacro R. Consiglio.

8°) Il Governatore o Capitano, giudice penale di prima istanza, puniva i delitti, eccetto i più gravi, che venivano giudicati dalla Gran Corte, o dalla R. Udienza, era di nomina regia.

PUBBLICO COMIZIO

Tutti i cittadini capaci, cioè maggiori di anni 18, esclusi i  sacerdoti, i pregiudicati, i debitori dell'Università, i condannati a pene infamanti, i miserabili, quelli che avevano liti pendenti con l'Università e le donne, formavano l'assemblea Popolare, o Comizio, o Parlamento, che si radunava in piazza, o nella Mater Ecclesia, in seguito a pubblico bando ed al suono della campana grande, per dare il parere su tutto quello che riguardava la Università e per le elezioni.

Le elezioni si facevano ogni anno il 16 agosto, quelle del cancelliere (segretario) e del Ragionale (Ragioniere) avvenivano non più tardi del 31 agosto.

A rappresentare il principe nel comizio, interveniva il Camerlengo.

A cura del cancelliere, di ciascuna riunione, veniva redatto un dettagliato verbale firmato da tutti gli intervenuti; gli analfabeti, che costituivano la grande maggioranza dei cittadini, apponevano il loro riverito segno di croce.

Abolita la feudalità le Università ripresero il nome di Comuni ed, in sostituzione dei comizi, furono istituiti i collegi Decurionali.

II collegio Decurionale di Genzano si componeva di 15 persone (di cui due per la frazione di Banzi) eletti dal popolo.

Il sindaco ed i primi due eletti rappresentavano il potere esecutivo.

II Sindaco veniva nominato dall'Intendente in una tema proposta dal collegio Decurionale.

Posteriormente il governo nazionale in luogo del collegio Decurionale istituì i consigli comunali ed il potere esecutivo passò nelle mani della Giunta comunale formata, in Genzano, dal Sindaco e da 4 assessori effettivi e da due supplenti.

Il Sindaco era eletto dal consiglio comunale come gli assessori, iI nostro consiglio comunale era composto di 20 consiglieri (di cui 2 per la frazione di Banzi) eletti dai cittadini che ne avevano la capacità e chiamati elettori amministrativi.

Per essere elettore occorreva avere buona condotta; saper leggere e scrivere; aver 21 anni compiuti; essere iscritta nei ruoli dei contribuenti del comune.

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(1) Dalla potenza di tali Ufficiali, troviamo traccia nel manoscritto esistente in casa Troiano di cui parlammo precedentemente. "Il 1764 don Domenico Dell'Agli, deputato all'annona, menò alla completa rovina il massaro Angelo Vito Restaino che, in tempo di carestia, non aveva consegnato tutto il grano per il quale era stato quotato"

Parte II - Cap. III - Corte marchionale o marchesale


Tra i diritti innumerevoli che godevano i Feudatari tutti, e quindi anche quelli di Genzano, vi era il «jus» di amministrare la giustizia, in determinati limiti, al feudo.

Per eliminare, in parte, gli abusi che i feudatari commettevano, la R. Autorità aveva disposto che il «jus»  della giustizia venisse esercitato a mezzo di speciali Magistrati nominati dai feudatari ogni anno, essi Ufficiali componevano la Corte.

La Corte Marchionale di Genzano era formata dal:

1°) Governatore, l'antico Capitano, era un giudice di prima istanza e nello stesso tempo di appello per i decreti degli Ufficiali minori dell'Università.

Nei primi tempi il Governatore si occupò solo delle cause civili e dei piccoli reati penali, poi la sua competenza si elevò su tutti i reati eccetto su quelli di competenza della R. Udienza o della Suprema Corte.

In conseguenza degli abusi che si commettevano, sino al punto che per reati di piccolissima importanza si arrivava alla condanna del taglio di una mano, di un orecchio, del naso ecc. ecc., sotto il Re Carlo III di Borbone, la competenza del Governatore venne contenuta nei limiti primieramente assegnati.

Detto Ufficiale provvedeva anche all'esecuzione forzata delle pene pecuniarie, dava esecuzione ai decreti ed alle sentenze emanate dai Tribunali Superiori, ed era incaricato anche delle esazioni fiscali, veniva eletto annualmente dal Re, ma pagato dal Municipio: poteva essere rieletto dopo tre anni dalla cessazione della carica e doveva essere forestiere.

Tra gli ultimi Governatori di Genzano vanno ricordati, per la loro temperanza: il dotta Biagio Delia di Montemurro (1735) ed il dott. Nicola Bruno (1).

2°) Il Consultore, o legale, che dava il suo parere nelle cause di competenza del Governatore, dal quale parere non si goteva prescindere quando il Governatore non era dottore in legge.

A rivedere i deliberati del Governatore, era chiamato, dalle parti il Giudice di 2^ istanza che risiedeva nel capoluogo della provincia (2).

Contro le decisioni di questo magistrato si poteva ricorrere ai Tribunali Superiori, cioè alla R. Udienza, poi alla Vicaria ed infine al Sacro R. Consiglio.

Tutte le sentenze di morte o di mutilazione della Marchional Corte non diventavano esecutive se non dopo il riesame dei superiori Tribunali, che avveniva anche di ufficio.

3°) Il Luogotenente, o Camerlengo, che sostituiva il Governatore, era Ufficiale Municipale eletto ogni anno dai Comizi, come in precedenza abbiamo detto, ma, per abuso, era designato dal Marchese, e quindi era ligio ai voleri del padrone.

4°) Il «Magister Actorum», che compilava gli atti (cancelliere), gli atti venivano notificati dai serventi della Corte.

DIRITTI MARCHESALI SULLA TERRA DI GENZANO

Il Feudatario di Genzano, oltre a quello di amministrare giustizia sulle prime e seconde cause, per real privilegio, aveva una quantità di altri diritti i cui principali erano:

Il «jus» dello scannaggio: tassa di macellazione che si pagava in ragione di sei o di sette grana per ogni animale bovino macellato e circa la metà per ogni pecora, agnello, castrato o maiale ucciso.

Il «jus» della mongitura: i proprietari degli animali che passavano pel nostro territorio e sostavano, erano tenuti a dare tutto il latte prodotto durante la permanenza.

II «jus» fornatico: i cittadini avevano l'obbligo di servirsi del forno marchesale e di dare in pagamento un rotolo dì pane per ogni 14 rotoli di pane che mandavano a far cuocere(3).

Il «jus» portulano: per la raccolta delle immondizie gettate sulle pubbliche strade, ogni famiglia pagava una tassa annua corrispondente al costo di un tombolo di grano, oppure un tomolo di grano.

II «jus» della sfarinatura: i cittadini aveva l'obbligo di servirsi dei «centimoli » del Marchese dando in pagamento un rotolo di farina per ogni tomolo di grano molito (2).

Il «jus» della tavema, il «jus» della zecca dei pesi e delle misure.

Il «jus» della gabella della testa, della terziaria e transitura del vino,

Il «jus» sui figli di anni 12 in su (3).  

Il «jus» del passo in contrada Taverna che fruttava da 56 a 102 ducati all'anno (2).

Il «jus» della strenna, in ducati 40 all'anno, pagati il primo gennaio dall'Università(1).

Il «jus» della paglia e legna; chi possedeva animali da soma doveva dare, ogni anno, al Marchese due some di paglia (3) o una soma di legna.

Il «jus» della mezza semenza: i coloni che seminavano nei territori del feudo o in quelli limitrofi, pagavano al Marchese 10 stoppelli o un tomolo di grano all'anno per ogni versura di terreno seminato e la vigesima parte delli lini «sceppati» (3).

Il «jus» fidando degli animali appartenenti ai forestieri di grana 10 per ogni «bacca» o bove domato messo al pascolo e carlini uno per gli indomiti (3).

II «jus» della «precesa»: chi doveva bruciare le ,«stoppie» aveva l'obbligo di pagare ducati quattro all'anno al marchese (4).

Il feudatario riceveva dall'Università il 20 per cento dell'entrare relative alla difesa chiamata Ralle e alle altre del Comune (4).

Esistevano in oltre: II «jus»delle «angarie » e « parangarie »: erano delle prestazioni con mercede le prime, senza mercede le seconde, che i sudditi ignobili facevano al feudatario col regio assenso, e poiché, si trattava normalmente di estorsioni, costituivano una punìzione che il re infliggeva al popolo.

Per esempio, a Genzano, l'annuo ufficio dell'erario, del camerlingo dei 6 Baglivi (guardie; del Mastrobaglivo (5) erano delle angarie anzi delle parangarie.

Il «jus» dell'«adhoan» : il feudatario era tenuto, in tempo di guerra a prestare l'opera personale. L'imperatore Corrado tassò in danaro tale servizio in ragione di 6 once per ogni 20 once di rendita del feudo rurale; gli uomini del feudo contribuivano per la metà e, per disposizioni governative, l'«adhoa» non poteva superare i 5 carlini per fuoco (6).

Vi era anche il «jus» di vietare i matrimoni nel proprio feudo e di impedire di ordinare le vendite, le compere, le locazioni, i fitti (7).

Per l'esazione di detti diritti i feudatari si servivano di appaltatori che, naturalmente, rendevano assai più gravoso il già pesante fardello.

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(1) Furono governatori di Oppido, degni di rispetto, i Genzanesi: don Canio Ciola (1738); don Filippo Laviano (1745): don Giovanni Laviano (1778): don Giuseppe Gigante, dottore (1784); don Giuseppe Tommaso Latilla, notaro (1785); don Arcangelo Restaino (1797). (Giannone).

(2) Quando la Corte Baronale non aveva il diritto di ricognizione anche sulle seconde cause, per reale privilegio.

(3) Tavolario O. Grasso.

(4) Tavolario De Fusco.

(5) R. Tavolario De Fuxo.

(6) R. Tavolario Grasso.

(7) T. Andreucci.

Parte II - Cap. IV - La famiglia De Marinis


Tra le potenti ed illustri famiglie patrizie esistenti nel Genovesato eccelle quella dei De Marinis, di origine spagnuola.

Attirati dalla bellezza e dal clima meridionale si stabilirono a Napoli due dei suoi componenti, i germani don Battista e don Stefano.

Essi nel 1616 comperarono i feudi di Genzano e di Palazzo S. Gervasio da Andrea del Tufo, e divenne Marchese di Genzano don Giovanbattista.

Nel 1730 il marchese di Genzano acquistò il feudo di Oppido, che già teneva in fitto, per ducati 45.000; il dì 11 agosto dello stesso anno il Re concesse il regio assenso e don Giovan Battista De Marinis ebbe anche il titolo di barone di Oppido.

Il 19 giugno 1765, morto il marchese, divenne erede il nipote don Giovanni Andrea, Feudatario sino al 1806, epoca in cui fu abolita la feudalità.

Il figlio di questo buono e caritatevole feudatario, il marchesino Filippo, prese viva parte al movimento rivoluzionario napoletano ed appartenne alla famosa Compagnia della Morte, formata di 300 giovani patrioti.

Detta Compagnia aveva per insegna un drappo nero col teschio umano disegnato al centro e per motto: Morte al tiranno ! Caduta la Repubblica napoletana, il giovanissimo Marchesino non sfuggì all'infame "repurgo" ordinato dalla regina Maria Carolina.

Sottoposto a procedimento penale la Suprema Giunta di Stato, il 23 settembre, lo condannò alla pena capitale.

Il vecchio genitore tentò ogni via per salvarlo; mise a disposizione tutte le favolose ricchezze che possedeva, ma inutilmente.

Il 1°ottobre del 1799 il marchesino Filippo salì il patibolo ed entrò nella eletta schiera dei più fulgidi eroi dell'Unità ed Indipendenza Italiana.

A perenne ricordo, Genzano ha dato il nome del martire ad una delle vie principali del paese, cioè a quella che mena al palazzo degli uffici che un tempo fu la Marchional Corte.

Lo sventurato marchese morì in tardissima età e lasciò le immense ricchezze che aveva a Genzano, a Palazzo S. Gervasio, a Oppido, a Striano, a Bosco Reale, a Poggio Marino, a Napoli all'unica figlia, Costanza, sposa del principe di Sangro, così finì la famiglia De Marinis.

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Parte II - Cap. V - Sistema delle misure


A Genzano, come in tutti i paesi del Regno di Napoli, con poche varianti, si usavano le seguenti misure:

Misure di lunghezze:

L'unità di misura per le lunghezze era il palmo, uguale a circa m. 0,21.

Le misure più lunghe del palmo erano: il passo, composto di sette palmi, uguale a circa m. 1,57; la canna, formata di otto palmi, uguale approssimativamente a m. 1,68;

la catena, composta di 10 passi, uguale a circa m. 15,7, secondo altri a m. 14.7;

il miglio, formato di cento catene, uguale a circa m. 1851,55, secondo altri a m. 1570, rispondeva ad un minuto primo del meridiano terrestre.

Le misure più corte del palmo erano: l'oncia, corrispondente alla dodicesima parte del palmo; ogni oncia si componeva di cinque minuti, uguale alla sessantesima parte del palmo.

Misure di superficie:

L'unità di misura di superficie era il palmo quadrato.

Per le superfici agrarie, come per il Tavoliere delle Puglie, si usava:

la versura quadrata di sessanta catene di lato, uguale ad ha. 1,2345, composta di 36 catene quadrate, di 3600 passi quadrati e di 176.000 palmi quadrati, uguale a tre tomoli;

il carro, uguale ad ha 24.6900, formato di 20 versure o 60 tomoli;

il tomolo, corrispondeva approssimativamente all'estensione di terreno occupata da un tomolo (volume) di grano seminato, uguale ad ha 0,4115, ogni tomolo si divideva in ventiquattro misure(1).

Per le vigne si usava anche, come unità di misura, la «giornata» formata di 333 viti; tre giornate erano composte di 1.000 viti; 12 giornate (viti 4.000) occupavano un tomolo di terreno.

Misure di peso:

L'unità di misura per il peso era il rotolo, diviso, in 1.000 «trappesi»;

20 rotoli formavano una pesa;

un rotolo corrispondeva a Kg. 0,89099;

cento rotoli formavano un cantaio, uguale a q. 0,8090998;

trentasei «trappesi» formavano una libra (grammi 320,759);

Per le pietre ed i metalli preziosi si usava «l'oncia» corrispondente alla dodicesima parte della libra, uguale a gr. 26,729;

l'oncia si divideva in 130  carati;

il  carato  in quattro  grani;

il grano  in 16 «sedicesimi».

Misure di capacità:

Le misure di capacità mancavano e quindi tutti i liquidi si pesavano.

Per misurare il vino si usava:

la «salma», composta di 264 «rotoli»; ogni «salma» era formata di 22 «quartare»; ogni «quartara» pesava 12 «rotoli»;

Per misurare l'olio si usava la «quartarola» del peso di «rotoli» cinque; quattro «quartarole» formavano una «pesa» ; cinque «pese» formavano un «cantaio»;

Come misure piccole si usava:

la «arrava » ed il «misurino» corrispondenti rispettivamente alla quinta ed alla decima parte del «rotolo».

Misure di volume:

L'unità di misura per i volumi era il «tomolo» (corrispondente a litri 55,55 e, secondo altri, a litri 55,318), composto di tre «palmi cubici»; suddiviso in 2 «mezzetti», 4 « quarti », 8 « stoppelli » e 24 «misure»;

Una «misura » corrispondeva a circa litri 2, 314; uno «stoppello» a circa litri 6,915; un «quarto» a circa litri 13,880; un «mezzetto» a circa 27,772.

Sistema monetario:

L'unità di misura per i valori era il «grano» che equivaleva a circa L. 0,04 della nostra moneta;

Il «grano» si componeva di 100 «cavalli».

Esistevano monete di bronzo di uno o più «grani» ed anche di mezzo «grano» e così quelle di uno o più cavalli;

Otto «grani» formavano un «carlino», equivalente a circa L. 0,425;

Vi erano monete di argento di uno, due, sei, dodici «carlini».

La moneta di argento di 12 «carlini» si chiamava «pezza», ed equivaleva a L. 5,10;

Dieci «carlini» formavano un «ducato» corrispondente a L. 4,25;

Vi era una moneta d'oro di «ducati» tre che pesava «acini» 85 e si chiamava «oncia» e corrispondeva a L. 12,75;

Vi era un altro pezzo d'oro di «ducati» 15, del peso di «acini» 425, equivalente a L. 63,75.

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(1) Legge 6-4-1840; deliberazione del decurionato in data 24-11-1842.

 


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