CROCCO. Biografia di un brigante - Capitolo III - BRIGANTE POLITICO
Le
vittorie di Garibaldi ebbero per effetto di far insorgere i cosiddetti liberali
della Basilicata; i comitati segreti che facevano capo a Corleto avevano da
tempo preparato le popolazioni a insorgere contro il mal governo borbonico, per
cui in tutti i paesi era un tacito affaccendarsi a prontar armi, a fabbricar
cartucce per essere pronti a menar le mani nel momento designato.
Credetti giunto
il momento della mia riabilitazione morale. Condannato a grave pena per aver
ucciso un vile, che aveva cercato disonorare l'unica mia sorella, io avevo coll'astuzia
e colla forza, vinta la continua persecuzione dei gendarmi, guadagnandomi la
libertà con altro sangue, la vita con rapine ed aggressioni.
Sotto un governo
nuovo, da tutti proclamato liberale, nel trambito d'una rivoluzione, generale,
in momenti di entusiasmo e di giubilo, io speravo sorgere a vita nuova,
riacquistare quella libertà perduta, per l'onore della famiglia, onde
approfittando dei moti popolari mi mescolai cogl'insorti di Rionero e con essi
presi parte al moto rivoluzionario.
Non la mia
povera penna deve descrivere la storia dell'insurrezione della Basilicata, altri
che sono dotti e letterati avranno in proposito scritti volumi, che a me non fu
e non sarà dato di leggere, posso però con sicura coscienza afferma che in
quei giorni non commisi atti disonesti; ho fatto sempre ed ovunque il mio
dovere, mostrandomi audace ed intrepido nei momenti di maggior pericolo. Premeva
a me riabilitarmi specialmente di fronte ai paesani, e far vedere ch'ero pronto
a dare il sangue mio per l'idea liberale, cercavo tutti i mezzi per distinguermi
e così avere persone che potessero a tempo opportuno testimoniare in mio
favore.
Ma era scritto
che io non avessi pace mai; mia madre mi aveva profetizzato serpente, ed io da
rettile velenoso dovevo avvelenare il mio paese la mia bella regione e rendermi
celebre per atti di brigantaggio
Le spie che
avevano servito S.M. Francesco Il, cambiando bandiera non cambiarono mestiere; i
parenti di D. Vincenzo C ebbero paura che la mia presenza in Rionero potesse
portare danno alla tranquillità delle loro famiglie; i fratelli del signorotto,
da me ucciso perché cercava sedurre mia sorella, si unirono anch'essi agli
altri e tutti uniti vollero la mia rovina.
Vivevo
tranquillo in paese da due mesi, sicuro di avere ottenuto una tacita grazia pei
delitti prima compiuti, quando nel novembre 1860 fui segretamente avvertito,
esservi per me un mandato d'arresto, spiccato dalla regia autorità giudiziaria.
Compresi il
pericolo che mi minacciava e senza por tempo in mezzo mi salvai, dandomi alla
campagna. Oramai in me non rimaneva che odio e desiderio di sangue, mi ero
cullato nella speranza di una riabilitazione, che forse, dato i miei istinti,
sarebbe venuta meno da sé più tardi; essa invece venne troncata, non per causa
mia ma per la infamia dei miei nemici, per cui crebbe in me il desiderio di
vendetta e con essa il bisogno di vivere.
Mi unii con
altri, che si trovavano presso a poco nelle mie condizioni, e scelto per dimora
la foresta di Monticchio, armato di fucile iniziai le nuove gesta colle
aggressioni di viandanti.
La mancanza
assoluta di soldati, lo scarso servizio fatto dalle guardie civiche, ci resero.
in breve temerari e baldanzosi, offrendoci mezzo ai ricchi sequestri, a taglie
onerose, a guadagni abbondanti.
Protetto dal
terreno eminentemente boschivo, aiutato dai pastori e dai boscaiuoli del luogo,
gente derelitta che traeva un'esistenza miserissima, la mia piccola banda crebbe
di numero reclutando i fuggitivi delle patrie galere, i contumaci alla giustizia
i molti renitenti alla leva ed i non pochi disertori del Regio Esercito. Ma
coll'aumentare della forza numerica crebbero i bisogni indispensabili non solo
all'esistenza, ma alla difesa personale, come più tardi si sentì la necessità
di provvedere il materiale necessario all'offesa.
Ed allora
scorazzando per le campagne cominciammo a requisire cavalli ed armi; tanto che
in breve comandavo una ventina di briganti bene armati e meglio equipaggiati,
che già avevano sostenuto brillantemente il battesimo del fuoco in uno scontro
coi militi di Atella.
Conveniva trarre
vantaggio da tutto ciò che poteva essere utile alla nostra esistenza, cercare
per quanto era possibile l'ausilio dei pastori, dei poverelli, approfittare
della crassa ignoranza dei nostri cafoni, per apparire ai loro occhi, non come
malfattori comuni, ma come vittime di un'ingiustizia; farsi paladini di un'idea,
di un principio e con esso e per esso aver aiuto materiale e morale da tutti
coloro che, non contenti del loro stato, avevano nel cuore un'amarezza e nella
mente l'idea della ribellione.
La reazione che
in qualche punto, come a Muro e a San Mauro, cominciava a rialzare il capo fu
per me arma potentissima che valse a rendermi forte e temuto.
Per quanto
deficiente d'istruzione letteraria, l'ingegno non mi faceva difetto, onde
compresi tosto tutto l'enorme vantaggio che mi sarebbe venuto facendomi
banditore d'una lotta reazionaria. Coll'aiuto di abili confidenti, seppi in
breve accaparrarmi tutti coloro ai quali la rivoluzione era stata di danno, dai
più sfegatati borbonici, ai melliflui liberali, dagli impiegati, che avevano
perduto un lauto stipendio, ai preti ed ai frati, resi furibondi dalla legge
contro i possessi del clero.
Segretamente
aiutato dagli uni e dagli altri, il povero pastore di capre, andava man mano
acquistando potenza e prestigio, tanto che il nome di Crocco, per tutte le
campagne del Melfese, veniva accolto con entusiasmo, come già un dì Masaniello
per Napoli.
E dopo tanti
anni passati in carcere, ancor oggi sento entusiasmarmi pensando ai primi giorni
dell'aprile 1861, quando dalla boscaglia di Lagopesole, alla Ginestra, a Barile,
a Ripacandida, per tutto il Melfese ero acclamato quale novello liberatore ed
accolto con onori veramente trionfali.
Il grido d'onore
dei miei satelliti era un evviva pel caduto Francesco Il (da me costantemente
aborrito), l'emblema una bandiera bianca con nastri azzurri, le armi ci erano
fornite segretamente; i cavalli in parte requisiti e in parte avuti in dono.
omitati reazionari con arruolamenti segreti fornivano l'elemento uomo onde in
breve ebbi ai miei ordini un piccolo esercito, del quanti n'ebbi regolarmente il
comando quale Generale ufficialmente nominato e riconosciuto da tutti i centri
dipendenti.
Promettevo a
tutti mari e monti, onore e gloria a bizzeffe; a contadini facevo balenare la
certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza
d'impadronirsi degli armenti affidati alla loro custodia; ai signorotti decaduti
il recupero delle avite ricchezze e la gloria degli smantellati castelli, a
tutti molto oro e cariche onorifiche.
E così mentre
io facevo servire da puntello al mio potere tutto l'elemento infimo, ignorante
ed ambizioso, il clero ed i nobili borbonici si servivano dell'opera mia per
avvantaggiarsi nella azione.
La mancanza di
truppe regolari nei paesi ch'io percorrevo incitamento ai più titubanti per
darsi in braccio alla reazione in ogni canto della Basilicata si parlava con
certezza di una imminente levata di scudi del decaduto Franceschiello,
appoggiato dall'Austria, dalla Spagna, e tacitamente aiutato dalla Francia anzi
si vociferava che un poderoso esercito, domata la avanzasse vittorioso e
trionfante verso la Basilicata.
A poco a poco io
mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e m'ingolfai in
essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria.
Abilmente
preparato il moto reazionario scoppiò il giorno 7 aprile alla Ginestra.
Contadini,
pastori, cittadini di ogni condizione al grido «Viva Francesco II», corsero ad
armarsi di fucile, di scure, di attrezzi colonici e in massa compatta avanzammo
su Ripacandida
La notizia che
le guardie mobili di Avigliano e Rionero movevano unite contro di noi, portò un
po' di sgomento nella mia gente, conveniva a me all'inizio della spedizione, non
espormi ad una facile sconfitta, affrontando i militi nazionali in aperta
campagna. Una disfatta anche parziale avrebbe influito enormemente sullo spirito
delle popolazioni, facendo svaporare quell'entusiasmo popolare, ch'io con tanto
lavorio segreto, avevo grado a grado saputo destare per ogni dove. Ad una lotta
aperta e cruente preferii la guerra d'astuzia, per cui, lasciata la via,
m'internai nei boschi ove sarebbe stato facile l'agguato e la vittoria.
La Ginestra era
il mio impero, la sede sicura, il centro della mia forza, e di là mossi
risoluto su Ripacandida. Attaccai violentemente ed in breve fui padrone della
caserma dei militi e in possesso delle loro armi; la folla selvaggia ch'io
comandavo non aveva freno, né a me conveniva mitigarla.
Quella mia
condiscenza alla distruzione, al saccheggio, era :mite per me di maggior forza
avvenire, l'esempio del fatto bottino traeva dalla mia altri proseliti andanti
di guadagnar fortuna col sangue.
Lasciai quindi
ognuno libero di sé ordinando solo si rispettassero le famiglie dei nostri
compagni d'armi.
Nel conflitto
avuto coi militi paesani, il loro capo era caduto morto, il cadavere di costui
trascinato per le vie venne portato innanzi all'abitazione della famiglia sua
mentre la folla ne saccheggiava la casa. Durò per più ore la baldoria ed il
ladroneggio e solo verso sera pensai a riordinare quell'orda ubbriaca.
Prima cura fu
quella di decretare decaduta l'autorità imperante, e chiamato a consiglio i
caporioni, nominai una giunta provvisoria che doveva sedere al municipio e di là
emanare decreti e proclami. Volli che per le chiese venisse cantato il Tedeum in
onore della vittoria, e si abbattessero tutti gli stemmi del nuovo governo
innalzando quelli, già abbandonati, del Borbone.
Da Ripacandida a
Barile breve è il cammino; numerose sollecitazioni mi chiamavano colà a
liberare la plebe dalla sozzure dei ricchi prepotenti, per cui mossi tosto per
quella volta e preso possesso del paese , ne ordinai il governo come avevo fatto
a Ripacandida.
Le vittorie di
quei primi giorni se avevano allarmato, non a torto, i signori, avevano per
altro affezionato alla mia causa migliaia e migliaia di contadini, così che
correvano a me da ogni dove a stuolo numerosi armati per mettersi ai miei
ordini. Compresi come dovessi, senza perder tempo, prender possesso di centri più
importanti, per cui inviai alcuni fidi in Venosa perché mi preparassero il
terreno.
Ed il mattino
del giorno 10 col mio piccolo esercito di predatori mossi alla conquista della
vetusta Venusia. Sapevo che la città (8000 abitanti) era preparata a difesa e
che in aiuto della guardia civica erano giunti i militi di Palazzo S.. Gervasio,
ma sapevo altresì che in paese la mia venuta era attesa da molte persone, e che
queste non erano tutte del popolo, ma in buona parte signori.
A mezza via fui
informato che la milizia civica, allarmata dalla forza che era ai miei ordini,
àveva deciso chiudere le porte, asserragliare le vie, portandosi ad occupare il
Castello.
Giunto in
vicinanza della città, ripartii la mia forza in diversi gruppi a cadauno dei
quali assegnai un settore di attacco; mentre ero occupato in tale operazione,
vidi sventolare dall'alto delle chiese alcune bandieruole bianche, segnale a me
ben noto, per cui ordinai senz'altro l'attacco.
Ma fu un attacco
incruente, poiché scavalcate le mura mi vennero aperte le porte senza colpo
ferire, ed io entrai coi miei occupando subito la piazza principale, di dove
mossi per assalire il Castello.
Dalle grida di
gioia e di furore dei miei, a cui faceva eco l'acclamazione popolare, la difesa
comprese tosto esser vano ogni suo sforzo pochi colpi di fucile sparati contro
le mura ebbero il merito di ottenere una resa a discrezione sotto promessa di
lasciar a tutti la vita.
Venosa era mia
ed in men che non si dica io ricevevo le congratulazioni dei maggiorenni, mentre
a migliaia affluivano a me le suppliche d'ogni genere e specie.
Prima mia cura
fu di spalancare le carceri, nominare un consiglio reggente e pubblicare il nome
delle persone che, dovevano aver rispettate la proprietà e la vita, pena la
morte ai trasgressori.
Dal 10 al 14 io
rimasi coi miei in Venosa spogliando, depredando, imponendo taglie, distruggendo
uomini e case, facendo manbassa su tutti coloro che erano nemici della reazione.
Dopo Venosa era
stata decisa l'occupazione di Melfi, dove i nostri amici avevano tutto preparato
perché fossi accolto cogli onori dovuti al mio grado.
Il 14 aprile
1861 lasciai Venosa e mi gettai su Lavello accolto da quella popolazione al
grido di «Viva Francesco lI».
Raccolto in
paese quel poco che ci fu dato trovare, stante le poche risorse sue e nominata
la solita commissione a governo del Municipio, mi affrettai avanzare su Melfi
che con plebiscito popolare aveva decretato decaduto il potere regio.
Fra le non poche
soddisfazione ch'io pure provai nell'avventurosa mia vita io ricordo con viva
compiacenza la maggiore, la più splendida, quella cioè che accompagnò il mio
ingresso nella città di Melfi, capoluogo di circondano. A qualcuno, leggendo
queste memorie, potrà apparire esagerato il mio scritto, ma giuro non sul mio
onore, ma sulla sacra memoria di mia madre, che non esagero, che non mento, e
d'altronde credo che parleranno di ciò i documenti ufficiali.
Ai piedi della
non breve salita, che, staccandosi dalla rotabile, conduce alla porta
principale, fui accolto, al suono delle musiche, <'a un comitato composto
delle persone più facoltose della città, mentre suonavano a distesa le campane
a festa, e dai balconi, gremiti di persone e parati con arazzi variopinti, le
donne lanciavano fiori e baci.
Giunto sulla
piazza principale il signor ……….dall'alto del sontuoso suo palazzo dopo un
acconcio discorso inneggiante le virtù e glorie del governo Borbonico, invitò
il popolo ad acclamare in Crocco, il fiero generale del buon Re Francesco II.
Rispose a
quell'invito un triplicato «Evviva a Crocco», mentre sparavano per le vie i
mortaretti in segno di maggior contento.
Nella chiesa,
addobbata riccamente per me, era stata esposta la Madonna del Carmine, perché
io rendessi omaggio devoto alla Vergine che mi aveva protetto portandomi
vincitore ed illeso dopo tante ed aspre lotte. Alla sera del mio ingresso per
tutta la città vi furono luminarie, feste, balli e baldoria.
Siccome in
Melfi, come già dissi, la restaurazione mi aveva prevenuto, io trovai già
emanate tutte le disposizioni opportune anzi quei signori mi avevano del pure
prevenuto distruggendo tutti gli archivi (miei nemici mortali) ed aprendo le
carceri, come era mia costante abitudine.
Non peraltro però,
mostrando un massimo rispetto per me, quei padri consiglieri vollero che io
sanzionassi l'opera loro, cosa ch'io feci approvando tutte le disposizioni da
loro date e prese.
I nemici della
restaurazione furono proscritti, i loro beni confiscati, le case loro
saccheggiate; a tutela dell'ordine pubblico venne creato un servizio speciale
utilizzando gli uomini più fedeli della mia masnada; costoro dovevano con ogni
mezzo tener a freno i miei masnadieri, impedire che avvenissero scene di sangue,
pena la vita ai trasgressori. E poiché l'esempio era indispensabile, ricordo di
aver pubblicamente fatto fucilare, un tale di Atella, reo di aver saccheggiata
la casa di un reazionario.
Utilizzando le
armi requisite a Venosa e quelle sequestrate in Melfi nonché i cavalli raccolti
per via, ordinai tutta quella massa scomposta che mi seguiva, ripartendola in
centurie, agli ordini di un capitano, ed in reggimenti sotto il comando di
colonnelli. Due centurie erano a cavallo sotto gli occhi di un maggiore.
Ma purtroppo non
potetti godere a lungo gli ozi di Melfi inquantoché venni informato che da
Bari, da Potenza e da Foggia erano in marcia, contro di me dirette, numerose
colonne di truppe regolari.
Compresi ben
tosto che, se mi era tornato facile col mio esercito di predoni affrontare le
milizie civiche, ed attaccare città indifese e preparate alla resa, mi sarebbe
però stato impossibile combattere all'aperto contro le truppe regolari, munite
di artiglieria e cavalleria. Né mi conveniva in conseguenza trarre meco tutte
quelle persone che sino ad ora mi avevano seguito, per cui, dopo un'acconcia
selezione tra i volontari, lasciati in libertà i meno utili e nella notte del
18 aprile, colle lacrime agli occhi e colla bile nel cuore, lasciai Melfi
dirigendomi sul territorio di Avellino.
Mentre le truppe
del Re Vittorio Emanuele (un battaglione del 30° ed uno del 5° fanteria) il
giorno 19 entrarono in Melfi, io assalivo il paesetto Carbonaro costringendo i
cittadini a fornirmi viveri per la mia gente ed oro per la paga.
A Calitri dopo
fiera lotta contro i militi paesani, ebbi splendida vittoria e con forte taglia
al comune ed ai proprietari, colmai le nostre casse, preparandomi una buona
riserva di denari pei giorni di riposo.
L'arrivo delle
prime truppe regolari aveva sollevato gli abbattuti spiriti della guardie
civiche, onde le compagnie di militi già in via di sfacelo si andarono
riordinando sotto il comando di arditi cittadini e diedero man forte ai soldati
nell'opera di repressione. Contemporaneamente il rigore dei comandi militari,
che con bandi avvertivano delle gravi pene che andavano incontro tutti coloro
che aiutavano in un modo qualsiasi la reazione o gli sbandati reazionari, influì
enormemente non solo ad assottigliare la mia banda, ma diminuire l'appoggio dei
confidenti e delle spie.
Soffocati
ovunque i moti reazionari, rientrati i vari paesi nell’orbita della legge,
crebbe nei vari centri l'audacia dei liberali e nei pubblici Circoli parlando di
noi, già un dì terrore della popolazione, ci trattavano da pastoielli, da
gente dappoco, facili a fuggire alla vista d'una canna di fucile.
Avevo occupato
il paese di Sant'Andrea ove avevo deciso di stare alcuni giorni per dar riposo
alla banda, quando seppi da un confidente che nel villaggio di Conza il
comandante della guardia nazionale aveva, la sera antecedente, profferito ad
alta voce parole di sprezzo verso di me, soggiungendo ch'egli coi suoi militi si
sentiva capace di mettermi in fuga colla mia banda. Per punire cotanta superba i
miei capi mi suggerirono di muovere tosto alla distruzione di Conza; non fui del
loro parere; e chiamato un mio compagno d'armi gli ordinai di montare a cavallo
e consegnare al sindaco di Conza la seguente missiva: «Signori di Conza.
Occupo, come ben sapete, Sant'Andrea colla mia banda. Vi intimo, pena la mia
venuta costà, di mandarmi la bandiera tricolore del comune, il quadro del Re
Vittorio Emanuele e quello di Garibaldi esistenti nella sala del consiglio, non
che la cassa della fondiaria. Il tutto dovrà essermi presentato dal Comandante
la Guardia Nazionale di persona. Do' tempo otto ore. Carmine Crocco, Generale di
Francesco II».
Sei ore dopo
quel comandante era avvilito ai miei piedi implorando pietà per la vecchia
madre che sarebbe morta di dolore, ed io pensando a mia madre, gli lasciai salva
la vita.
Ai primi di
maggio trovando difficoltà a trarre mezzi di sussistenza stante la forza della
mia banda, e per sfuggire la caccia senza tregua a noi fatta dalle truppe e
dalla guardia nazionale, divisi la mia masnada in diverse bande dando per punto
di riunione i boschi di Lagopesole.
La chiamata alle
armi delle classi anziane napoletane per essere incorporate colle altre truppe
del Regio Esercito, offrì mezzo di arruolare nelle mie file un elemento
veramente ottimo sotto ogni riguardo.
Ai primi del
mese di giugno dovevano i riservisti presentarsi ai depositi per essere vestiti
della mlitare divisa, ma la maggior parte di essi preferirono darsi alla
campagna anziché seguire le sorti dell'esercito, e così ebbi campo di
assoldare uomini più provetti alle armi ed abituati alle fatiche de' campi ed
alla disciplina.
I moti
reazionari soffocati in sul nascere non lasciarono tracce profonde nei vari
paesi. La mano ferrea destinata a domare la reazione seppe vincere colla forza e
colla clemenza; le poche vittime della controreazione, sono da incolparsi alle
inimicizie paesane, a basse vendette cittadine, più che al rigore d'una legge
che doveva essere marziale.
Molti di coloro
che avevano gridato, «Viva Francesco Il»,. Viva Crocco», all'arrivo delle
truppe gridarono «Viva Vittorio», «Viva Cialdini» e passarono per liberali
come furono da noi creduti per reazionari.
A me che della
reazione era capo, sarebbe spettata di certo la fucilazione alla schiena, e
poiché mi sentivo giovine ed amavo la vita, credetti prudente difendere
l'esistenza con tutte le forze che mi venivano da un fisico vigoroso, per cui
lasciato da un canto la politica ed i politicanti, ritornai qual'ero prima,
brigante comune, costretto ad assalire i viandanti, a imporre taglie per dar da
vivere a me ed alla mia banda.
Seppi più
tardi, non so con quanta verità, che tra coloro che più avevano contribuito a
farmi ricercare dalla giustizia, eravi il Cav. Giulio Roland, governatore della
Provincia ed il sottoprefetto Decio Lordi, quegli cioè che mi aveva prima
fornite le armi ed i cavalli per combattere in favore della rivoluzione.
Non mi si faccia
adunque gran colpa se con tanta facilità io avevo voltato bandiera; l'esempio
mi veniva dall'alto, da coloro cioè che dovevano essere d'esempio perché allo
stipendio del Regio Governo.
Al Cav. Roland
scrissi parecchie volte esortandolo a farsi trovare a tiro che volevo seco lui
accomodare una vecchia questione, invitandolo a proseguire nel suo sistema
sbirresco, che non gli sarebbe mancata rapida carriera e la gratitudine dei miei
compaesani, sempre felici di essere poveri e cornuti per opera dei piemontesi.
Col
sottoprefetto mi si presentò occasione favorevole di risolvere di persona la
questione; ma il diavolo ci mise la coda, e quel fortunato mortale, mi sfuggì
proprio nel momento che pensavo al suo supplizio.
Ma non
acceleriamo gli avvenimenti.