TECNOLOGIE
MODERNE E CULTURE SISMICHE NELL’ANTICHITÀ
IL TEMPIO DI ARTEMIDE A EFESO TRA MITO E REALTA'
“Graecae
magnificentiae vera admiratio exstat templum Ephesiae Dianae CXX annis factum a
tota Asia. In solo id palustri fecere, ne terrae motus sentiret aut hiatus
timeret, rursus ne in lubrico atque instabili fundamenta tantae molis
locarentur, calcatis ea substravere carbonicus, dein velleribus lanae.” (n.h.,
36,95)
“Una realizzazione della grandiosità greca degna di autentica meraviglia è il tempio di Diana che ancora esiste a Efeso, la cui costruzione impegnò tutta l’Asia per 120 anni. Lo eressero in una zona palustre, perché non dovesse subire terremoti o temere spaccature del suolo; d’altra parte, poiché non si voleva che le fondamenta di un edificio tanto imponente poggiassero su un suolo tanto sdrucciolevole ed instabile, si pose sotto di esse uno strato di frammenti di carbone ed un altro di velli di lana.”
Il
passo sopra citato della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio è di
particolare interesse per chi si occupa di terremoti, poiché costituisce
l'unica fonte classica in cui sia citato in modo esplicito l'uso di un
accorgimento antisismico nell'antichità.
La
peculiarità di tale espediente ha fatto sì che questo brano venga citato in
lavori e in articoli di ingegneria sismica, in particolare quando si vuole
introdurre l'argomento dell'isolamento sismico alla base. Si è creduto infatti
di riconoscere in questa realizzazione un'anticipazione delle moderne concezioni
di protezione sismica, ed è così che fra richiami e citazioni la notizia di
Plinio ha ormai finito per assumere la forma di una sorta di archetipo mitico
della tecnica dell'isolamento alla base.
In
tempi moderni, si deve a Frank Lloyd Wright la riscoperta dell’idea che un
terreno soffice potesse attutire gli effetti del terremoto applicando il
concetto nella progettazione dell’Imperial Hotel di Tokyo. Il sito aveva delle
particolari caratteristiche geologiche: uno strato di 18÷20 m di limi melmosi
al di sotto di uno strato superficiale compatto di soli 2,5 m di spessore.
L’architetto utilizzò lo strato di limi come “a good cushion to relieve the
terrible shocks”, sopra il quale l’edificio si sarebbe comportato come
“una corazzata galleggiante”.
Come
vedremo in seguito, tale definizione di adatta bene anche all’Artemision, con
le sue colossali dimensioni e le caratteristiche geologiche del terreno di
fondazione.
Dopo
F.L. Wright, è l’archeologia che torna a parlare della protezione sismica
alla base degli edifici ed a proposito di un altro grande monumento
dell’antichità: le Grandi Mura di Troia (metà del II millennio a.C.).
Durante gli scavi condotti negli anni ’30, l’archeologo statunitense Carl
Blegen constatò che sotto le fondazioni del grande muro fu deliberatamente
lasciato uno strato di terra compatta (hard-packed) tra il piano di fondazione e
la roccia di base. Blegen ipotizzò che gli antichi costruttori avevano voluto
salvaguardare il muro dal pericolo dei terremoti lasciando un cuscino di terra
– “a cuschion of earth”- che agisse come un semplice “shock absorber”
tra roccia e fondazioni.
L’archeologo
considerò questa caratteristica come anticipatrice della tecnica utilizzata a
Ilion, oltre mille anni più tardi in età ellenistica (III sec. a.C.), nella
realizzazione del tempio di Atena, le cui fondazioni poggiano su di uno spesso
strato di sabbia. Oltre che da archeologi, strati di sabbia (o altri materiali
inerti) sotto le fondazioni sono stati spesso interpretati in chiave antisismica
da esperti di ingegneria sismica (per es. Mazzolani 1991, Giuffrè 1988).
L’esempio
più noto riguarda i templi greci di Paestum e Metaponto dove le fondazioni
poggiano su un cuscino di sabbia che fu deliberatamente posato tra la struttura
e la roccia di base. Molto interessante è anche la tecnica impiegata nelle
colonie greche sul Mar Nero, dove, a partire dal IV secolo a.C., le fondazioni
furono realizzate con strati alternati di loess e cenere mista a carbone
(Belyayev e Chernyshev 1988).
A
questo punto è necessario tornare a Plinio e chiedersi se il suo racconto trova
conferma nelle testimonianze storiche e archeologiche e se gli accorgimenti ivi
citati trovano giustificazione sulla base delle condizioni geologiche e
sismotettoniche del sito.
Il tempio di Diana a Efeso
Nel
mondo antico vi sono pochi luoghi sacri, che con il loro enigma e la loro
inaccessibilità hanno così affascinato gli uomini come il tempio di Artemide a
Efeso, conosciuto già nell'antichità come una delle Sette Meraviglie del
mondo.
Il
luogo in cui fu impiantato il santuario di Artemide è situato ai piedi della
collina di Ayasoluk, oggi sede della cittadina turca di Selçuk. Al tempo della
costruzione il tempio si trovava in prossimità del mare, presso la foce del
fiume Meandro - l’antico Caistro - i cui depositi alluvionali hanno fatto
avanzare di alcuni chilometri la linea di costa e sepolto i resti del tempio
sotto una coltre di alcuni metri.
Nel
1860 J.T. Wood, un architetto inglese che lavorava per una compagnia
ferroviaria, iniziò una ricerca che portò avanti per 14 anni. Gli scavi
portarono alla scoperta di un grande tempio arcaico (VI sec. a.C.) e di uno di
età tardo classica (IV sec. a.C.), costruiti uno sopra all’altro.
La
campagna di scavo e ricerca fu poi ripresa nel 1895 dall’Istituto Archeologico
Austriaco e nel 1904 dal British Museum che, con D.G. Hogarth, trovò resti di
edifici ancora più antichi dimostrando come, già nell’VIII secolo, il sito
fosse un luogo di culto.
L’edificio
più antico è un tempio periptero, risalente all’VIII secolo a.C., situato
nell’area corrispondente al centro del santuario. Successivamente tale tempio
venne ampliato e dotato di un muro di difesa contro le alluvioni.
Intorno
al 560 a.C. iniziò la costruzione del grande tempio di marmo, chiamato anche
tempio di Creso poiché, secondo la tradizione e ad alcuni ritrovamenti
epigrafici, fu proprio il re lido dalla leggendaria ricchezza a finanziarne la
costruzione. Si trattava di un tempio diptero - cioè con un doppio ordine di
colonne attorno alla cella. Una rarità nel mondo antico: l’unico precedente
era il tempio di Hera a Samo, la cui costruzione era iniziata una ventina di
anni prima.
Le
dimensioni erano colossali. Secondo la ricostruzione degli archeologi la
dimensioni allo spiccato delle fondazioni erano pari a circa 60 x 103 m. I fusti
delle colonne misuravano in altezza circa 18 metri, con un diametro alla base di
1,80 m. Forse per la prima volta in Grecia, furono impiegati architravi
marmorei; il peso dell’architrave mediano viene stimato tra le 24 e le 40
tonnellate.
Come
racconta Plinio, l’architetto Chersiphron dovette escogitare un sistema
ingegnoso per issare e posizionare gli architravi ad oltre 20 metri di altezza.
L’ingegno, però, sembrò non bastare quando bisognò issare l’architrave
che stava proprio sulla porta: era il blocco più grande e non aveva una base su
cui poggiare. La disperazione indusse l’artista a pensare al suicidio. Dicono
che una notte, mentre dormiva prostrato dall’assillo del problema, gli apparve
l’immagine della dea cui il tempio era dedicato: lo esortava a vivere, perché
l’architrave l’aveva sistemato lei. Il giorno dopo, si constatò che era così:
sembrava che l’architrave si fosse assestato semplicemente in virtù del suo
peso.
Se
prestiamo fede a Vitruvio, la disperazione di Chersiphron era ben motivata,
poiché vigeva ad Efeso una legge che regolava le spese per le opere pubbliche
secondo la quale l’architetto non poteva “sforare” oltre il quarto
dell’importo preventivato, oltre il quale questi doveva risponderne con i
propri beni. (Ah! se anche l’Italia, nella sua storia recente, avesse avuta
una norma del genere che uomini più assennati applicarono più di 2000 anni fa …)
Il
magnifico Artemision costruito da Chersiphron durò circa 200 anni: nel 356
a.C., la stessa notte della nascita di Alessandro Magno, un mitomane di nome
Erostrato incendiò il tempio, causandone la distruzione.
Il
nuovo tempio di Diana, o tempio tardo-classico, venne ricostruito con le stesse
dimensioni ma ad un livello più alto. Sull’antico stilobate venne infatti
realizzato un basamento, o crepidoma, di dimensioni 72 x 125 m., ad una quota più
alta di 2,40 m. a cui si accedeva con una scalinata.
Il
santuario di Artemide rimase un importante centro di culto sino all’avvento
del cristianesimo. All’inizio del V secolo il tempio fu demolito e la cella
trasformata in chiesa. (!)
Il
declino del culto di Artemide coincise con il declino di Efeso, che si ridusse
alle dimensioni di un villaggio. Dopodiché non si hanno più notizie del tempio
fino ai primi ritrovamenti del tardo ‘800.
Da
allora fino ad oggi sono state tentate diverse ricostruzioni del tempio ma
l’emozione che doveva pervadere l’antico visitatore e che permea le parole
di Antipatro di Sidone, è per noi perduta per sempre:
“Ho
visto le mura su cui correvano le bighe nella superba Babilonia, e la statua di
Zeus dell’Alpheios, e i Giardini Pensili e il Colosso di Helios, e l’immensa
opera delle Piramidi e l’enorme tomba di Mausoleo. Ma quando vidi finalmente
il tempio di Artemide che si librava nelle nuvole impallidì tutto il resto e mi
chiesi se l’occhio del Sole avesse visto mai qualcosa di simile al di fuori
dell’alto Olimpo.”
Le altre fonti
Plinio
non è l’unica fonte che parla dell’Artemision e delle sue fondazioni. Anzi,
sembra che delle descrizioni rimasteci permanga con insistenza il ricordo di un
opera di fondazione fuori dal comune.
Qui
bisogna citare subito uno scrittore del III secolo d.C., Diogene Laerzio -
ripreso poi anche da Esichio Milesio - che narra di come l’espediente degli
strati di carbone per ovviare al suolo paludoso fu consigliato dall’architetto
Theodoros di Samo che sotto simili circostanze aveva diretto la realizzazione
dell’Heraion (prima metà VI sec. a.C.), l’altro grande tempio diptero
dell’età arcaica.
A
detta delle fonti antiche Theodoros di Samo era un autentico genio. Scrittore,
ingegnere, architetto, scultore, incisore, visse tra il 570 e il 525 a.C., ed è
considerato il massimo artista ionico dell’età arcaica. Oltre a risolvere
problemi tecnici, come quello di costruire su terreni paludosi (molto comuni,
bisogna ricordarlo, sulle coste dell’Asia Minore), secondo alcuni inventò il
tornio e perfezionò la livella. Eresse il primo gigantesco tempio ionico,
L’Heraion a Samo, sul quale scrisse un trattato. Perfezionò la scultura a
cera persa e fece il primo autoritratto. Come toreuta realizzò opere che
suscitarono meraviglia. (Plinio, n.h., 7.198, 34.83, 36.90; Vitruvio
introduzione VII).
Gli
scavi dell’Heraion hanno permesso di evidenziare la tecnica utilizzata da
Theodoros. Le fondazioni del tempio consistono in 11 assise che si affondano nel
suolo alluvionale per una profondità di ~ 2,50 metri. Lo studio dei paramenti e
dei rinterri mostra come le trincee siano state scavate chiaramente più larghe
delle dimensioni dei muri continui che costituiscono le fondazioni; sul terreno
vergine fu quindi posato uno strato di ghiaia calcarea dello spessore di 20 cm.;
su questo strato furono elevate le pareti ed i vuoti laterali furono riempiti
con il materiale di scarto proveniente dalla lavorazione delle pietre. È
interessante notare che per il riempimento non venne riutilizzato il terreno
scavato, ma fu utilizzato materiale arido; in questo modo i muri di fondazione
furono come foderati ed isolati dal terreno umido su tutte le loro facce.
L’opera
più antica a noi giunta sulle Sette Meraviglie è quella attribuita a Filone di
Bisanzio, che visse ad Alessandria attorno al 225 a.C. La descrizione
dell’Artemision è incompleta, ma è interessante notare come tra le
caratteristiche “meravigliose” vi siano le fondamenta:
“L’architetto
liberò il fondo del terreno sottostante, poi scavò dei fossati fino a grandi
profondità e gettò le fondamenta. La quantità di muratura utilizzata per le
strutture sotto terra ammontava alle intere cave delle montagne. Egli assicurò
la sua inamovibile stabilità…”
L’ultima
fonte antica che tratta dell’Artemision è Beda il Venerabile, erudito
britannico che visse tra il VII e l’VIII secolo, che compose una breve opera
sulle sette meraviglie (De Septem Mundi Miraculis) . Come si può constatare
dalla lettura dell’opera, nel corso del tempo le descrizioni delle sette
meraviglie si erano completamente trasfigurate ed abbellite di particolari
fantastici, e per quanto riguarda il tempio di Artemide, le fondazioni del
tempio diventano una progressione geometrica di successivi ordini di archi
sovrapposti.
A
parte la veridicità dei particolari dalle fonti emerge comunque il ricordo di
un’opera di fondazione memorabile.
Geologia e sismotettonica del sito
Da
un punto di vista geologico il sito dove fu realizzato l’Artemision è
caratterizzato dai depositi alluvionali del fiume Castro ed altri corsi minori.
Le prime strutture templari furono costruite su una piccola sporgenza del delta
del fiume Selinus. Come è stato archeologicamente dimostrato il tempio
periptero è stato sotto costante minaccia di inondazioni e dell’aumento del
livello del suolo causato dai depositi alluvionali. Una grande inondazione si
verificò nel VII sec. a.C. e l’intera peristasi venne rialzata ad un livello
2 m. più alto, inoltre fu costruito intorno alla cella un muro di protezione
contro future inondazioni. Nella fase arcaica ed ellenistica il tempio continuò
ad essere interessato dai depositi alluvionali e tra il VI e il IV secolo fu
rialzato di altri 2,40 m.
Pertanto
tutte le strutture poggiano su uno strato di diversi metri di deposito
alluvionale recente costituito da sabbie argillose. Bisogna però tenere
presente che tutte le strutture che precedevano una nuova fase venivano spianate
ed inglobate nelle fondazioni successive.
Nella
caratterizzazione sismotettonica della Turchia la costa occidentale fa parte del
sistema del Graben Egeo, una regione caratterizzata da un movimento di
estensione in direzione NNE-SSW. Il Graben Egeo, una delle zone sismicamente più
attive della Turchia, consiste in tre grabens delimitati da faglie normali in
direzione E-W. Il territorio di Efeso fa parte del Menderes graben, e si trova
in zona sismica di 1° categoria. Secondo un rapporto dell’Earthquake Research
Department di Ankara, nella regione Egea, tra il 1900 e i 1995, si sono
registrati 33 terremoti distruttivi con magnitudo M > 5,5, diversi dei quali
accompagnati da rotture superficiali.
I
dati geofisici sono quindi in accordo con la descrizione di Plinio e
giustificano quindi entrambi i timori degli antichi costruttori (..ne terrae
motus sentiret aut hiatus timeret..).
Dati archeologici sulle fondazioni del tempio
Gli
scavi condotti dall’Istituto Archeologico Austriaco hanno messo in evidenza
una complessa stratigrafia che testimonia le diverse fasi di costruzione nel
luogo di culto lungo un arco di tempo che supera il mezzo millennio.
Rispetto
ai tipi di fondazione usualmente utilizzati nel mondo greco – continue in
trincea o a plinti collegati da setti murari - le fondazioni dell'Artemision
presentano alcune particolarità non comuni, che evidenziano la preoccupazione
dei costruttori per l’enorme peso che veniva trasmesso dalle colonne. Il
carico alla base di ogni singola colonna superava di molto le 100 t.
Considerando
le ricostruzioni relative alla trabeazione e alla copertura si può stimare con
una certa approssimazione un carico non distante dalle 200 t., con una
sollecitazione alla base delle colonne intorno agli 8 kg/cm²,
accettabile per il marmo delle colonne ma non per il terreno alluvionale.
Pertanto invece di fondazioni isolate o continue, il doppio anello di colonne
che corre intorno alla cella (peristasis) fu posizionato su una robusta
piattaforma costituita da tre strati di grosse lastre di gneiss per uno spessore
di circa 1,30 m. Considerando anche lo stilobate (il pavimento di marmo da cui
partivano le colonne) abbiamo una platea di 1,5 metri che scarica sul terreno
una sollecitazione inferiore a 1 kg/cm².
Una caratteristica curiosa è che tra uno strato e l’altro le assise furono
“intonacate” con uno strato di argilla. Nella zona centrale del tempio, come
abbiamo già ricordato, una parte della struttura poggia sui resti del tempio più
antico.
Il
tempio tardoclassico, progettato ad una quota superiore di 2,4 m. presenta il
tipo di fondazione con plinti e pareti di collegamento, appoggiati sullo
stilobate del tempio arcaico.
La bonifica del terreno di fondazione
Per
quanto riguarda l’eventuale presenza degli strati di carbone e di lana,
l’atteggiamento dell’archeologia è stato per lungo tempo controverso: da un
lato la tendenza era di ignorare le affermazioni di Plinio e da un altro a
considerarle come razionalizzazioni: recenti scoperte hanno dimostrato che il
racconto di Plinio è più attendibile di quanto si pensava.
In
effetti, nei primi saggi effettuati per verificare il racconto di Plinio, Wood
segnalò uno strato di carbone: “ Nelle buche scavate vicino ai muri della
cella, trovai, alla profondità di 5 piedi e 9 pollici, uno strato, spesso 4
pollici, di un composto con l’apparenza e la consistenza di stucco. Sotto
questo c’era uno strato di carbone spesso 3 pollici , e sotto quello un altro
strato del precedente composto simile allo stucco spesso 4 pollici”.
Un’analisi chimica di questi strati mostrò “…niente tranne che una specie
di malta.” Il commento di Hogarth fu il seguente “…ma sulla base di queste
analisi non fu provata la corrispondenza con l’ingegnoso letto di lana di
Theodoros, ma è una specie di malta. Al di sotto di questo egli trovò,
comunque, quello che egli credette essere uno strato di carbone…”.
Strati
con carbone sono abbastanza frequenti durante gli scavi archeologici, ma vengono
perlopiù associati a strati di incendio. Secondo l’archeologo W. Schaber
l’associazione di pelli e carboni pestati con la tecnica costruttiva di
fondamenta in aree paludose, sarebbe una tarda razionalizzazione di un
procedimento che non era stato capito. L’autore osserva come razionalizzazioni
di questo tipo si possono dimostrare a dozzine in autori come Vitruvio e Plinio.
L’annotazione di Plinio che il tempio fu costruito su suolo paludoso per
difenderlo dai terremoti sarebbe un’indicazione di come il collegamento tra
mito e culto poteva essere “razionalizzato” e quindi interpretato come
tecnica costruttiva. Per quanto concerne gli strati di lana e carbone secondo
Schaber questa notizia contiene solo una procedura di culto, dove le offerte
sacrificali propiziatorie alla buona costruzione del tempio, cioè le pelli e le
ceneri degli animali sacrificati, venivano sparse dove poi si costruiva il
tempio.
L’utilizzo
di carboni per ovviare al suolo umido è raccomandato anche da Vitruvio in
diverse occasioni. Nel caso di terreni molli o acquitrinosi Vitruvio (III capo
III, V capo XII) prescrive il consolidamento mediante palificate di legno ed il
riempimento dello spazio tra testa dei pali e intradosso fondazione con carboni
pestati.
L’uso
di carboni, con funzione antiumidità, è previsto nel libro VII, capo IV, anche
nella realizzazione dei pavimenti “all’uso dei Greci”, ripreso da Plinio
(n.h. 36,188) col nome “grecanico”.
Per
quanto riguarda l’idoneità del carbone a svolgere la funzione di barriera
antiumidità si può dire che il carbone di legna presenta spiccate proprietà
adsorbenti, ossia possiede la capacità di fissare le molecole di un fluido
sulla propria superficie. Più un materiale è poroso e più aumenta, con la sua
superficie, la sua capacità adsorbente.
Uno
strato di carbone dovrebbe quindi essere efficace nell’impedire la risalita
dell’umidità e consentire allo stesso tempo il drenaggio delle acque.
Se
l’uso di carbone in fondazione appare pertinente allo scopo, ben più
problematico risulta giustificare l’uso della lana, ammesso e non concesso che
Plinio dica la verità. In questo caso l’archeologia può dirci poco,
considerato che la lana è un materiale molto deperibile. Bisogna ricordare che
nel mito greco il seppellimento di pelli d’animale può assumere un
significato simbolico. Nel mito di Orione, ad esempio, il protagonista nasce da
una pelle di bue sotterrata da Irieo, figlio di Poseidone.
Volendo
“razionalizzare” si può citare una notizia che riporta Vitruvio nel libro
VIII, capo I, dove sono descritti i metodi per individuare le sorgenti
sotterranee: l’esperienza proposta da Vitruvio è di scavare una fossa e di
ricoprirla con canne o fronde dopo averne riposto all’interno un vello di
lana. Se il giorno seguente se ne fosse spremuta acqua ciò avrebbe indicato la
presenza della falda. Da questo passo (che si ritrova in fonti più tarde come
la Geoponica) risulta quindi che gli antichi consideravano la lana un indicatore
della presenza di acqua grazie alla sua capacità di assorbire e trattenere
l’umidità.
L’espediente
antisismico.
A
noi moderni, l’idea di realizzare un importante edificio su suolo paludoso può
sembrare un’assurdità, soprattutto in caso di terremoto dove conosciamo i
rischi derivanti da eventuali fenomeni di amplificazione, ma a noi qui ora
interessa capire per prima cosa se per gli antichi costruttori vi erano ragioni
che potevano rendere plausibile tale scelta.
Vi
sono tre ordini di giustificazioni da prendere in considerazione.
1-
Regola empirica basata sull’osservazione
Secondo
Plinio il tempio fu costruito su terreno soffice per difenderlo dai terremoti e
dalle spaccature del terreno; l’intenzione, plausibile o meno, era quindi di
proteggerlo da crepacci, voragini e non da sprofondamenti, termine che richiama
fenomeni lenti.
Nella
mitologia greca il terremoto è spesso associato all’apertura nel suolo di
voragini, spaccature. Un esempio è il mito di Gige narrato da Platone. Un altro
riguarda la contesa tra Atena e Poseidone per la città di Atene: Poseidone (il
dio dei terremoti) colpisce con il tridente la roccia, la terra si apre e ne
esce il cavallo.
Quando
era possibile i Greci fondavano sulla roccia, ma non bisogna dimenticare come
alla base di ogni tecnica vi fosse l’osservazione da cui trarre regole
empiriche. Come osserva il geologo S. Stiros:
“
Gli effetti di una scossa sismica sugli edifici dipendono dalla stabilità delle
fondazioni, perciò edifici che hanno le fondamenta sulla roccia sono
chiaramente più resistenti di quelli fondati su terreni molli o su materiali
non consolidati. A volte, tuttavia, si osserva proprio il contrario: per
esempio, il terremoto distruttivo di Kalamata (Grecia meridionale) del 1986 ha
spianato completamente il paese di Elaiochori, fondato su rocce mesozoiche,
mentre le case dei sobborghi di Kalamata, a pochi chilometri di distanza,
fondati su terreni alluvionali recenti, hanno subito danni minori; poco più in
là, altri edifici con fondazioni simili sono crollati.” (Stiros e Dakoronia
in Guidoboni, 1989 p 427).
2-
Elaborazione teorica sulle cause del terremoto
Le
prime speculazioni sul terremoto che ci sono giunte risalgono alle origini
ioniche della filosofia e della scienza greche, quindi proprio nel periodo e
nella regione in cui fu realizzato l’Artemision.
Secondo
la tradizione riportata da Seneca, Talete di Mileto sosteneva che “la terra è
sostenuta dall’acqua sulla quale galleggia come una nave, e diciamo che c’è
un terremoto quando la terra è scossa dal movimento dell’acqua.”
Le
teorie che seguirono si differenziano per la causa prima - la senescenza della
terra per Annessimene, il fuoco per Anassagora, il “pneuma” per Aristotele,
acqua e aria per Democrito - ma sono in accordo sulla dinamica dello scuotimento
che viene messo in relazione alle cavità sotterranee. Per cui a causare i
terremoti è la violenza dei “venti” sotterranei che non trovando sfogo
rimbalzano nelle cavità della terra, oppure la stessa azione dell’aria o del
fuoco che indebolisce le parti inferiori della terra causando il crollo delle
caverne sotterranee.
Nella
sua Meteorologia, Aristotele osserva come la magnitudo di un terremoto è
direttamente proporzionale alla porosità ed all’estensione dei vuoti del
sottosuolo, in quanto tali configurazioni consentono un maggiore accumulo di
pneuma. Aristotele osserva anche che quando vi è una grande quantità di pneuma
si hanno scosse orizzontali. Inoltre, discrimina tra vari tipi di terremoti
(sussultori, ondulatori, sprofondanti, squarcianti). Nel libro VI delle
Naturales Quaestiones, dedicato ai terremoti, dopo avere esposto le varie teorie
sul fenomeno, Seneca osserva come sia evidente che “la propagazione del
terremoto …è direttamente proporzionale all’estensione dei vuoti e delle
cavità sotterranee”(N.Q., VI,25,4) e che ciò ha portato “grandi
scrittori” ad affermare che i terreni senza cavità fossero immuni da
terremoti. Come esempio viene riportato l’Egitto, il cui suolo è costituito
di strati sovrapposti di limo, ed è quindi privo di qualsiasi discontinuità o
vuoto. A proposito dell’Egitto, Aristotele dice che “l’intera regione è
un deposito alluvionale del Nilo” , mentre Seneca osserva che il Nilo “porta
costantemente avanti i confini dell’Egitto.”(N.Q., VI, 26, 1).
Se
associamo l’affermazione di Aristotele a proposito del suolo cavernoso come
struttura sismogenetica alla consapevolezza che i suoli alluvionali sono privi
di soluzioni di continuità, abbiamo una giustificazione teorica
dell’espediente di fondare il tempio su suolo alluvionale.
3-
Ragioni legate alle pratiche religiose: il culto delle sorgenti
Come
è stato messo in rilievo da Bammer (1992), nonostante gli eventi alluvionali
che costrinsero i costruttori a rialzare il livello del tempio almeno due volte
ed ha realizzare opere di difesa, il sito di culto non fu spostato. La scoperta
di una sorgente di acqua dolce nei pressi del tempio fa supporre che l’acqua
fosse usata nei riti di sacrificio e che fosse considerata sacra.
Per
riassumere i punti salienti, secondo Plinio:
-
il tempio fu costruito su suolo palustre affinché non avvertisse terremoti e
non dovesse temere spaccature del suolo;
-
fu posato uno strato di carbone e uno di velli di lana per ovviare agli
inconvenienti derivati dalla scivolosità ed instabilità del suolo.
Da cui si può dedurre che:
-
il vero espediente antisismico consiste nella posa dell'edificio su di un
terreno alluvionale;
-
gli strati di carbone e lana sarebbero invece un espediente per bonificare il
piano di posa delle fondazioni e proteggere le strutture fondali, come
conseguenza della scelta di impiantare l'edificio in quel dato luogo.
I
dati geofisici indicano che Efeso si trova in una regione caratterizzata da
un’elevata sismicità e soggetta, con una certa frequenza, a fenomeni di
fagliazione superficiale. Ora, tali fenomeni sono comuni nelle piane
alluvionali, ma seguendo il ragionamento alla base della teoria aristotelica, ciò
che si temeva era il collasso del suolo, il crollo dell’eventuale caverna
sottostante, associato al tipo di terremoto definito “sprofondante”. Per
inciso, vi sono passi della Meteorologia che autorizzano ad ipotizzare che
Aristotele fosse in realtà consapevole che strutture del suolo meno compatte
sono soggette a terremoti di magnitudo maggiore.
Un
altro elemento da sottolineare è che il miglioramento del piano di posa delle
fondazioni era una tecnica comunemente usata in caso di suoli non rocciosi.
Per
quanto riguarda l’uso di carbone, questo risulta ben attestato sia dalle fonti
che dal record archeologico. Non sembra comunque che si tratti di uno strato
costante e sistematico; inoltre, la parte centrale del tempio non insiste su
suolo ma su strutture precedenti. Bisogna poi ricordare che ci si trova di
fronte ad una complessa sovrapposizione di strutture, che si evidenzia in
un'altrettanta complessa stratigrafia archeologica, dove non è possibile
parlare in termini univoci di piano di fondazione del tempio.
L’esame
delle strutture sopravvissute testimoniano comunque una cultura tecnica
avanzata. L’Artemision rivela un sistema di fondazioni adeguato al carico
trasmesso dalla superstruttura ed alle avverse condizioni geologiche; fondazioni
robuste e protette dall’umidità si rivelano efficaci non solo in condizioni
statiche ma anche sotto carichi dinamici.
Per
quanto riguarda la consapevolezza del pericolo sismico, l’analisi dei sistemi
costruttivi delle antiche civiltà dell’area mediterranea mostra che, in
determinati ambiti, furono sviluppate soluzioni architettoniche idonee a
mitigare i danni di eventi sismici.
Qualche
considerazione sul provvedimento antisismico come frutto di un razionalizzazione
a posteriori. Plinio, o qualcun altro prima di lui, potrebbe aver cercato
nell’autorità aristotelica, che indicava i terreni con cavità come strutture
sismogenetiche, una risposta al perché un edificio tanto imponente e tanto
prestigioso fosse stato posto in un luogo paludoso. Se l’Egitto, il cui suolo
era formato dai depositi alluvionali del Nilo, era considerato asismico, lo
stesso si poteva inferire a proposito dell’Artemision.
I
fatti accertati - la sismicità e la natura alluvionale del luogo, gli strati di
carbone al di sotto di alcune strutture di fondazione, la zattera di fondazione
che sostiene il colonnato, la parte centrale del tempio che poggia su strutture
precedenti – consentono un collegamento solo parziale tra la fonte e
l’opera. L’esiguità dei resti archeologici rende difficile decifrare in
maniera completa gli intenti degli antichi costruttori.
Nella
prefazione del libro VII, Vitruvio afferma che Chersiphron scrisse un trattato
sull’Artemision. In questo caso la risposta completa ai nostri interrogativi
può venire solo da un papiro perduto più di duemila anni fa.
Fonte: Bruno Carpani (ENEA) |