CROCCO.
Biografia di un brigante - Capitolo VII - LA
FUGA E LA PRIGIONIA
Fra
i codardi che ci abbandonarono per presentarsi alle Autorità, il più vile fu
certamente Giuseppe Caruso. Questo scellerato Caino, dopo di aver consumato il
fratricidio si presentava, con altri suoi perfidi compagni, e dopo pochi mesi
veniva liberato dal Governo. Quindi alla testa della truppa incominciò la
caccia dei suoi compagni, e in pochi mesi rese al Governo quel servizio che non
ebbe mai dal poderoso esercito.
Caruso,
il vile assassino di Pio Masiello, contribuì all'uccisione dell'unico fratello
suo, e quel sangue grida ancor oggi vendetta contro di lui, ora libero ed
impiegato regio, dopo di aver sulla coscienza 124 omicidi, fatti nel corso di
quattro anni di sua carriera brigantesca.
Ma
doveva essere così; le sante parole del parroco Leonardo Cecere dovevano
avverarsi «i tristi uccidono i tristi» però quel vile mercenario, quell'anima
venduta, non ebbe il piacere di vedermi preso per opera sua, e deve all'infamia
della Curia Romana, la fortuna di aver potuto assistere, da libero cittadino,
alla mia condanna capitale.
Iddio
è giusto, ed io nell'altro mondo farò di lui, quello che fece Ugolino
dell'arcivescovo Ruggeri.
Caruso
divenuto il consigliere del generale Pallavicini spiegò come doveva essere
fatta la guerra brigantesca; egli, conoscitore intimo dei nostri più reconditi
ricoveri, delle abitudini nostre, dei confidenti, dei manutengoli, postosi a
capo della truppa contribuì alla nostra dissoluzione.
Fu
per suo consiglio che si istituirono i cosiddetti posti militari collocati agli
sbocchi e nelle vie tra un bosco all'altro, e che fummo di poi attaccati nei
nostri sicuri nascondigli dalle truppe poste a' suoi ordini.
Ma
la sua sagacia, la sua fine astuzia, il livore del nero animo suo, non ebbero
frutto contro di me, ch'io potei sempre sfuggire al suo accanito inseguimento.
Un
giorno circuisce la grotta ove sono ricoverato, e non ricorda l'ingenuo che
quella grotta ha due uscite e mentre mi vuole morto di fame, sente che io sono
già al sicuro sulla vetta del monte che porta l'esecrato suo nome.
Avvilito,
derelitto, m'insegue coi suoi a monte Caruso ove ci attacca col fuoco dei suoi
fucili rigati, e quando certo di avermi ucciso, vuoI portare in trionfo il mio
cadavere, si accorge, ma tardi, che il morto non sono io, ma il mio servo
vestito dei miei panni da generale. E così di seguito gli sfuggo all'Ofanto
quand'egli serve di guida a migliaia di soldati, e giunto salvo nel bosco di
Sassano, mentre egli intontito da tanto mio ardire e fortuna non sa capacitarsi
che io non sia caduto in suo potere.
Siamo
alla fine di giugno dell'anno 1864, riuniti in dodici fidi amiconi contempliamo
mesti e rattristati il cadavere del nostro fiero compagno d'armi Pio Masiello.
Egli giace esanime sul ciglio di un fosso; ha l'occhio spento, le labbra livide,
i denti stretti e le mani rattrizzate.
Il
suo petto è squarciato da diverse profonde ferite di pugnale. Ai piedi suoi sta
il suo fucile scarico. Caruso trionfa.
Ninco-Nanco,
Masiello, Rocco, Serra, Grippo, La Rocca sono morti, altri non prigionieri che
ci rimane se non morte o galera!
La
mia legione di valorosi e temerari compagni si era assottigliata enormemente.
Dei
duemila uomini già un dì miei dipendenti, nell'anno 1864 eravamo ridotti a
cento e sedici tutti feriti da due sino a cinque volte. Dei rimanenti per
compiere la cifra, ottantasei caduti vivi nelle mani della forza, sedici
fucilati, cento e venti presentati spontanei, gli altri morti tutti colle armi
alla mano.
Mi
accorsi, con vivo cordoglio, come la mia stella fosse vicina al tramonto;
l'ombra minacciosa del Caino Caruso cominciava a impensierirmi; il Melfese già
teatro della lotta e forte baluardo all'accanito inseguimento, era divenuto
luogo insicuro per me; vedevo in ogni persona, fra gli stessi compagni di
mestiere, un traditore, un vile capace di vendere la mia persona per aver
mitigata la sua pena; aggiungasi a tutto ciò le energiche disposizioni date dal
generale Pallavicini per accelerare la nostra cattura, e non sarà difficile
farsi un'idea del mio stato d'animo in quei giorni.
Scampato
miracolosamente a monte Caruso ed all'Ofanto dopo di aver perduto i migliori
fratelli, riunii i più fidi al bosco di Sassano per combinare sul da farsi.
Furono vari e disparati i pareri, e tra i tanti, prevalente per un numero,
quello di riunirsi compatti contro Caruso per vendicare il nostro compagno
Masiello.
Di
parere contrario, per la difficoltà di stare raccolti in forte massa, senza
incappare continuamente nella forza, feci nota la irremovibile decisione presa,
di ritirarmi in Roma lasciando ognuno libero di sé.
La
sera del 28 luglio 1864 dodici uomini montati sopra superbi cavalli pugliesi,
nei pressi del comune di Monteverde, provincia di Avellino, sfidano per l'ultima
volta la truppa del R. Esercito italiano, poi per la strada nazionale calmi ed
orgogliosi passano rasente le mura della città di Lacedonia giungendo verso
sera in vista d'Ariano di Puglia. Camminano quegl'intrepidi cavalieri per città
e villaggi percorrendo tratturi nascosti, il fitto dei boschi lungo il letto di
fiumi, superano ostacoli seri, affrontano gravi pericoli, risoluti di giungere
sul suolo pontificio.
Sciagurati
dove andate? A chi prestate fiducia? Qual pensier vi guida? Tornate alle vostre
selve, alle macchie vostre, ite lungi dai principi dei sacerdoti imperocché
dessi sono più vili e traditori degli antichi giudei!...
De'
dodici cavalieri sette caddero malati per via e assaggiarono il piombo del
governo, io ed altri quattro scendemmo a Roma.
Da
uno dei sette colli spedii ad un diplomatico una raccomandatizia avuta da un
signorone meridionale, che non nomino per non offendere la sua memoria.
Quegli
mi rispose dandomi consiglio di presentarmi al governatore del Papa Re, cosa che
io feci tosto.
Che
fece il gran Pio IX, ci seppellì alle carceri nuove di Roma, poscia ci
trasferì alle carceri di San Michele a Ripa sempre chiusi in cella di rigore.
Alle
tante reiterate mie suppliche per essere consegnato al governo d'Italia, non fu
risposto mai. Chiesi di avere un pò di denaro (sequestratomi all'atto
dell'arresto) per supplire al magro vitto, n'ebbi in risposta dall'esecrato
monsignore Randi Lorenzo, governatore di Roma, «e quando sarai libero come
farai a vivere se ora consumi i tuoi denari?».
Il
Santo Padre ricevendo nel suo regno la mia persona doveva dire: «Tu hai toccato
le mie vesti, hai baciata la mia pantofola, ti siano rimessi i tuoi peccati»;
quindi doveva scrivere così a S.M. Vittorio Emanuele Re d'Italia; «Carissimo
figlio. Si è costituito a me un gran peccatore, Carmine Donatelli Crocco. Io
come padre dei figli cristiani gli ho perdonato i suoi peccati affinché non
vada all'inferno per l'eternità, tu, figlio mio, come Re cristiano, puniscilo
ma lascialo in vita affinché nelle carceri abbia mezzo di ravvivare il suo
senso morale e chieda a Dio il perdono del male fatto su questa terra, e così
colla mia e tua virtù lo manderemo pentito al giudizio finale».
Ciò
non fece, quindi ho il diritto di maledire la sua memoria, il suo triregno e la
sua scellerata curia. Voi nobili figli d'Italia, avete conosciuto ed amato il Re
Vittorio Emanuele della Casa Sabauda. Vi basta l'animo di credere che dopo la
raccomandazione del Papa, mi avrebbe fatto giustiziare degnamente ?
Dopo
31 mesi di carcere duro nutrito con una libbra di pane al giorno ed una zuppa di
legumi, fui mandato in Francia.
Pio
IX per non dar dispiacere al ex Re, che io avevo servito che mi aveva suggerito
di presentarmi a Roma, traendo ragione ch'io era suddito del Re Gioacchino Murat,
mi fece rilasciare dall'ambasciata francese un passaporto per l'Algeria e mi
spedì 5 territorio francese.
In
Francia fui arrestato e per tre mesi godetti le delizie del carcere straniero
tormentato da insetti comuni, e da un digiuno forzato. Dopo l'andirivieni di
note diplomatiche tra le Corti Roma, Firenze, Parigi, sul diritto della mia
persona, Napoleone III, salvando capra e cavoli, da Marsiglia mi ritornò a Roma
disposizione del Pontefice. Dopo poco tempo venni mandato a le carceri di
Palliano, ove fui caricato di catene e chiuso nella torre di quella rocca, per
dar principio al secondo digiuno, che durò fino al settembre del 1870.
Sapete
perché non fui consegnato al governo italiano? Perché consegnando me dovevano
consegnare la somma di lire 19.800 che io avevo indosso all'atto dell'arresto, e
questa somma che non fu data a me come non fu data al governo, come di diritto,
finì nelle tasche di qualche monsignore ladrone.
Finalmente
verso la fine di settembre 1870 giunse a Paliano un battaglione del R. Esercito
italiano. Alcuni ufficiali memori delle mie gesta, altri che mi avevano
combattuto nel 1861 - 62, vennero a visitarmi nella cella di rigore, e forse per
merito loro mi si tolsero le catene ed ebbi il permesso di prendere aria.
Il
generale Lanzavecchia mi fece togliere dalla cella di rigore passandomi in altra
cella spaziosa e piena di luce ove ebbi consegnato un letto da infermeria, vitto
da ammalato, ma abbondante, e da allora in poi fui trattato con mille riguardi,
che la bontà umana suole somministrare a quei sciagurati che sono alla vigilia
d'una pena capitale.
Fu
in quei giorni ch'io piangevo sempre; piangevo non per paura della morte, unico
rimedio al mio soffrire, ma bensì per gratitudine e piango ancora adesso che
scrivo, per le tante misericordie avute da coloro che io uccidevo come nemici.
Restai
a Paliano sino al giorno 23 giugno 1871; la sera di questo giorno arrivai a
Caserta. Quivi una folla di curiosi aspettava alla stazione per ammirare il
famoso generale dei briganti; nella prigione, in attesa di proseguire il
viaggio, ebbi l'alto onore di ricevere le visite di molti signori, mossi dalla
curiosità di conoscere di persona, questa belva feroce che si chiamava Crocco.
Da
Caserta passai ad Avellino sempre scortato dalla benemerita e trattato
cristianamente dai bravi carabinieri.
Nelle
carceri di Avellino stetti rinchiuso tredici mesi ove subii continui
interrogatori con un giudice istruttore che mi sembrava il messia della
giurisprudenza. Ogni giorno passavano in rassegna due o tre voluminosi processi,
esaminando ad una ad una le imputazioni, verificando le date, i luoghi e le
persone.
Con
mio rammarico lasciai il carcere di Avellino ed il 27 luglio 1872, scortato da
un maresciallo e da quattro carabinieri, arrivai a Potenza. Quivi non trovai
curiosi, ma bensì minacciosi figli di quella plebaglia che io avevo comandato.
La
notizia del mio arrivo aveva attirato sulle vie i sedicimila abitanti della
città, mancava S. Gerardo eppoi c'erano tutti. A maggior soddisfazione di quei
cittadini, già da me malmenati, giunti a Porta S. Lucia mi fecero discendere
dalla carrozza ed a piedi, percorrendo la strada Pretoriana, fui condotto alla
caserma dei carabinieri reali e di là alle carceri giudiziarie in attesa del
mio processo.
Finalmente
il 14 agosto 1872, giorno da me poco desiato si aprirono le sale della corte di
assise, ed i giurati furono chiamati a giudicare questo gran reo, che ora
rassegnato ed umile scrive sua storia.
Il
pubblico numerosissimo è trattenuto a stento dai carabinieri e da un picchetto
di soldati; tutti sono curiosi di vedere in viso il famoso generale della
reazione e delle orde brigantesche del Melfese; ognuno vuol sentire la lettura
del lungo atto di accusa, l'enumerazione delle centinaia d'imputazioni poste a 5
carico, le testimonianze che aggraveranno i reati consumati, discolpe
dell'imputato, la terribile requisitoria del Pubblico mistero, le blande difese
degli avvocati, l'imparziale riassunto Presidente ed infine il verdetto dei
giurati.